Sunday, February 28, 2021

Come dici alla gente che non sai parlare?


 

 Sono entrata nel bar. Ho chiesto una birra, con il mio italiano zoppicante. Il barista, che mi ha visto tante volte e sa come parlo, mi guarda con sospetto.

Il giorno prima, avevo lasciato al bar una copia di Etrurialand con il mio primo articolo. Evidentemente, l’aveva letto.

Lo sapevo io. La gente crede che, se una persona sa scrivere una lingua, segua logicamente che questa persona sa parlare la lingua.

Ma, come tante idee logiche, non è sempre vero. Cioè, è abbastanza vero per la madrelingua, ma per le lingue che impari a scuola come lingua straniera, non è per niente vero.

Infatti, anche se riesco a scrivere un po’ l’italiano, lo parlo come una maniglia della porta che è stata lasciata cadere sulla testa quando è nata. Se qualcuno al bar mi dice qualcosa, e io rispondo a monosillabi inadatti, crederà, adesso che ha visto come scrivo, che non voglia parlare con lui perché sono una snob.

Il problema è almeno in parte il modo in cui insegnano le lingue straniere nelle scuole tradizionali. Ti insegnano soprattutto a leggere la lingua, poi un po’ a scriverla, raramente a capirla quando è parlata, quasi mai a parlarla.

Avevo studiato l’italiano in una scuola tradizionale per un anno e mezzo prima di arrivare in Sicilia tanti anni fa. Anche allora ero capace di scrivere delle cose in modo abbastanza comprensibile. Ma, per parlare, sapevo solo: Buon giorno. Come sta? Spaghetti and meatballs. E buona notte.

Poi, c’è anche il mio carattere. Sono sempre stata più a mio agio scrivendo che parlando, anche in inglese.

Ricordo sempre quando avevo imparato a leggere: il mondo, che prima era stato in bianco e nero, si apriva davanti a me in tutti i colori, e riuscivo finalmente a capire con più chiarezza. Ho una mentalità visiva.

Quando mi parli, per capire, devo vedere le tue parole, leggere le tue parole nella mia mente. Se non le vedo, non le capisco.

A questo punto, dopo cinque anni in Italia, se una persona mi parla, un po’ lentamente e molto chiaramente, riesco a capire quasi tutto perché ho abbastanza tempo di scrivere, vedere, e leggere quello che sta dicendo.

Invece, se tu mi metti in una stanza con un gruppo di persone che stanno parlando tutte insieme, ad una velocità normale, con tutti gli idiomi, il gergo, e il dialetto, che non ti insegnano a scuola, non capisco niente.

Vedo solo, volando sopra la mia testa, la scia, tante scie, di parole che appaionno come macchie grigie e informe.

Sono anche timida. Come oso parlare se non so nemmeno qual è l’argomento della conversazione?

Sono stata cresiuta dalla mia nonna napoletana a cui non piacevano gli americani. Per lei, i napoletani, non tutti gli italiani ma solo i napoletani, erano il capolavoro di Dio.

Mi ha lasciato con la sensazione, che non riesco a togliermi anche adesso, che, se questa non è Napoli, questa non è l’Italia, e che Brooklyn, dove sono nata e cresciuta, non è niente che un quartiere di Napoli, un quartiere rovinato dagli stranieri, cioè, gli americani, e poi i neri, i portoricani, i chinesi, i siciliani, i calabresi . . .

Per lei, il modo in cui si deve educare i bambini era di punirli quando sbagliavano, e il suo modo di punirmi era di dirmi che non ero abbastanza buona per essere italiana, cioè napoletana.

Ogni volta che facevo qualcosa che non le piaceva, mi chiamava americana, per lei l’offesa più brutta del mondo.

Le zie e gli zii, la prima generazione nata negli Stati Uniti, volevano solo essere americani e volevano che noi bambini fossero americani. Per questo, ogni volta che cercavo di parlare in napoletano, la lingua usata in casa, mi dicevano che eravamo in America e dovevamo parlare in inglese.

Qualche volta, mi si beffavano addirittura o mi ignoravano. Così, invece di crescere bilingua, come tanti newyorkesi, sono cresciuta con una sola lingua e una sensazione rafforzata che non sarei mai stata abbastanza buona per essere italiana, tanto meno napoletana.

Per questo, invece di avere un vantaggio nell’imparare l’italiano, ho dovuto superare problemi psicologici per fare uscire dalla bocca una sola parola di italiano.

Secondo la cultura newyorkese, almeno nelle classe più poveri e la classe operaia a cui io appartenevo, se non c’è bisogno di parlare con gli sconosciuti, non devi parlare.

Puoi andare in negozio a fare la spesa senza pronunciare una sola parola.

E’ normale, secondo la cultura newyorkese, e se cerchi di parlare inutilmente o perfino, che Dio ti aiuti, cortesemente, ti credono un pazzo.

Per questo, non sono abituata a tutta questa cortesia, e la lingua che richiede, che ho trovato qui a Viterbo.

Poi, quando leggiamo, leggiamo con la nostra voce, non con la voce dello scrittore. Quando vivevo a Roma, ascoltavo un programma alla radio che permetteva a tutti di chiamare la stazione per parlare oppure mandare un sms.

Una sera, ci ho mandato un sms. Per scrivere quel breve sms, mi ci volle una mezz’ora.

Dovetti consultare il dizionario, due libri di grammatica, un libro che presenta 501 verbi italiani coniugati in tutti i tempi. Scrissi, lessi, riscrissi il mio messaggio.

Ma quando l’uomo lo lesse alla radio, lo lesse fluentemente, facilmente, con l’accento perfetto, il ritmo e il tono italiano. Infatti, il mio messaggio suonava proprio come l’italiano di uno cresciuto in Italia.

E’ lo stesso quando tu leggi questo: lo leggi nell’italiano tuo, non nell’italiano mio.

Adesso, il mio italiano è un mucchio di parole e frasi che ho dovuto imparare sui libri. La mia mente è una soffitta piena di cianfrusaglia e ninnoli polverosi fra cui devo frugare per cercare una risposta, mentre, allo stesso tempo, sto cercando di visualizzare le parole a cui devo rispondere. Non è una cosa facile.

E’ una cosa che, quando parlo, la si vede, ma quando scrivo, no.

Per favore, se io, o qualsiasi persona che non parla bene l’italiano, cerca di dirti qualcosa, abbi un po’ di pazienza e anche comprensione.

La gente che non parla bene l’italiano non è per questo snob o stupida.

Ricordati che, se questa persona non parla bene l’italiano, ci sarà un’altra lingua che parla bene, una lingua che tu, probabilmente, non sai parlare per niente.

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