Sono entrata nel bar. Ho
chiesto una birra, con il mio italiano zoppicante. Il barista, che mi ha visto
tante volte e sa come parlo, mi guarda con sospetto.
Il giorno prima, avevo
lasciato al bar una copia di Etrurialand con il mio primo articolo.
Evidentemente, l’aveva letto.
Lo sapevo io. La gente crede
che, se una persona sa scrivere una lingua, segua logicamente che questa
persona sa parlare la lingua.
Ma, come tante idee logiche,
non è sempre vero. Cioè, è abbastanza vero per la madrelingua, ma per le lingue
che impari a scuola come lingua straniera, non è per niente vero.
Infatti, anche se riesco a
scrivere un po’ l’italiano, lo parlo come una maniglia della porta che è stata
lasciata cadere sulla testa quando è nata. Se qualcuno al bar mi dice qualcosa,
e io rispondo a monosillabi inadatti, crederà, adesso che ha visto come scrivo,
che non voglia parlare con lui perché sono una snob.
Il problema è almeno in
parte il modo in cui insegnano le lingue straniere nelle scuole tradizionali.
Ti insegnano soprattutto a leggere la lingua, poi un po’ a scriverla, raramente
a capirla quando è parlata, quasi mai a parlarla.
Avevo studiato l’italiano in
una scuola tradizionale per un anno e mezzo prima di arrivare in Sicilia tanti
anni fa. Anche allora ero capace di scrivere delle cose in modo abbastanza
comprensibile. Ma, per parlare, sapevo solo: Buon giorno. Come sta? Spaghetti
and meatballs. E buona notte.
Poi, c’è anche il mio
carattere. Sono sempre stata più a mio agio scrivendo che parlando, anche in
inglese.
Ricordo sempre quando avevo
imparato a leggere: il mondo, che prima era stato in bianco e nero, si apriva
davanti a me in tutti i colori, e riuscivo finalmente a capire con più
chiarezza. Ho una mentalità visiva.
Quando mi parli, per capire,
devo vedere le tue parole, leggere le tue parole nella mia mente. Se non le
vedo, non le capisco.
A questo punto, dopo cinque
anni in Italia, se una persona mi parla, un po’ lentamente e molto chiaramente,
riesco a capire quasi tutto perché ho abbastanza tempo di scrivere, vedere, e
leggere quello che sta dicendo.
Invece, se tu mi metti in
una stanza con un gruppo di persone che stanno parlando tutte insieme, ad una
velocità normale, con tutti gli idiomi, il gergo, e il dialetto, che non ti
insegnano a scuola, non capisco niente.
Vedo solo, volando sopra la
mia testa, la scia, tante scie, di parole che appaionno come macchie grigie e
informe.
Sono anche timida. Come oso
parlare se non so nemmeno qual è l’argomento della conversazione?
Sono stata cresiuta dalla
mia nonna napoletana a cui non piacevano gli americani. Per lei, i napoletani,
non tutti gli italiani ma solo i napoletani, erano il capolavoro di Dio.
Mi ha lasciato con la
sensazione, che non riesco a togliermi anche adesso, che, se questa non è
Napoli, questa non è l’Italia, e che Brooklyn, dove sono nata e cresciuta, non
è niente che un quartiere di Napoli, un quartiere rovinato dagli stranieri,
cioè, gli americani, e poi i neri, i portoricani, i chinesi, i siciliani, i
calabresi . . .
Per lei, il modo in cui si
deve educare i bambini era di punirli quando sbagliavano, e il suo modo di
punirmi era di dirmi che non ero abbastanza buona per essere italiana, cioè
napoletana.
Ogni volta che facevo
qualcosa che non le piaceva, mi chiamava americana, per lei l’offesa più brutta
del mondo.
Le zie e gli zii, la prima
generazione nata negli Stati Uniti, volevano solo essere americani e volevano
che noi bambini fossero americani. Per questo, ogni volta che cercavo di
parlare in napoletano, la lingua usata in casa, mi dicevano che eravamo in
America e dovevamo parlare in inglese.
Qualche volta, mi si
beffavano addirittura o mi ignoravano. Così, invece di crescere bilingua, come
tanti newyorkesi, sono cresciuta con una sola lingua e una sensazione
rafforzata che non sarei mai stata abbastanza buona per essere italiana, tanto
meno napoletana.
Per questo, invece di avere
un vantaggio nell’imparare l’italiano, ho dovuto superare problemi psicologici
per fare uscire dalla bocca una sola parola di italiano.
Secondo la cultura
newyorkese, almeno nelle classe più poveri e la classe operaia a cui io
appartenevo, se non c’è bisogno di parlare con gli sconosciuti, non devi
parlare.
Puoi andare in negozio a
fare la spesa senza pronunciare una sola parola.
E’ normale, secondo la
cultura newyorkese, e se cerchi di parlare inutilmente o perfino, che Dio ti
aiuti, cortesemente, ti credono un pazzo.
Per questo, non sono
abituata a tutta questa cortesia, e la lingua che richiede, che ho trovato qui
a Viterbo.
Poi, quando leggiamo,
leggiamo con la nostra voce, non con la voce dello scrittore. Quando vivevo a
Roma, ascoltavo un programma alla radio che permetteva a tutti di chiamare la
stazione per parlare oppure mandare un sms.
Una sera, ci ho mandato un
sms. Per scrivere quel breve sms, mi ci volle una mezz’ora.
Dovetti consultare il
dizionario, due libri di grammatica, un libro che presenta 501 verbi italiani
coniugati in tutti i tempi. Scrissi, lessi, riscrissi il mio messaggio.
Ma quando l’uomo lo lesse
alla radio, lo lesse fluentemente, facilmente, con l’accento perfetto, il ritmo
e il tono italiano. Infatti, il mio messaggio suonava proprio come l’italiano
di uno cresciuto in Italia.
E’ lo stesso quando tu leggi
questo: lo leggi nell’italiano tuo, non nell’italiano mio.
Adesso, il mio italiano è un
mucchio di parole e frasi che ho dovuto imparare sui libri. La mia mente è una
soffitta piena di cianfrusaglia e ninnoli polverosi fra cui devo frugare per
cercare una risposta, mentre, allo stesso tempo, sto cercando di visualizzare
le parole a cui devo rispondere. Non è una cosa facile.
E’ una cosa che, quando
parlo, la si vede, ma quando scrivo, no.
Per favore, se io, o
qualsiasi persona che non parla bene l’italiano, cerca di dirti qualcosa, abbi
un po’ di pazienza e anche comprensione.
La gente che non parla bene
l’italiano non è per questo snob o stupida.
Ricordati che, se questa
persona non parla bene l’italiano, ci sarà un’altra lingua che parla bene, una
lingua che tu, probabilmente, non sai parlare per niente.