La
prima volta che aveva scritto il suo nome, Edith Catherine Pozzuoli,
su un foglio, il primo giorno del primo anno di scuola, quando nessun
altro della classe sapeva scrivere proprio niente, la suora
irlandese-americana quasi le sgridò.
“No,
no!” disse la suora. “Sarebbe meglio scrivere Pozzuol,
senza la i
alla fine. Così, sembra più
americano e tutti ti penseranno americana. E’ meglio essere
americano che italiano.”
Edith
voleva ridere ma non osava. Con il suo naso napoletano, con la sua
pelle scura, con i suoi capelli neri, come avrebbe fatto a fingersi
americana soltanto togliendo il vocale finale dal cognome? Si guardò
intorno. Quasi tutti i bambini erano italo-americani, ma nessuno di
loro disse niente. Sembravano tutti impauriti. C’era anche la
bambina che aveva pianto quando aveva veduto la mamma che si
allontanava dalla scuola quella mattina; c’erano ancora le tracce
delle lacrime sulle guance.
Edith
guardò negli occhi della suora. Non aveva mai paura quando era
arrabbiata, anche se dopo, quando non era più arrabbiata, era
terrorizzata.
“A
me piace essere italiana,” disse in una voce che nessun bam-bino
aveva mai usato con una suora, almeno, non un buon bambino. “Anzi,
mi piace essere napoletana. E ho il naso che lo prova.”
“Ecco,”
disse la suora, troppo sorpresa per reagire a quello che sembrava a
lei una mancanza di rispetto e anche l’insubordinazione, “Proprio
di quel naso devi fare ammenda con il cognome togliendone la vocale
dalla fine.”
“Il
mio nome,” disse Edith, scandendo bene le parole, “è Edith
Catherine Pozzuoli. Sono napoletana e ne sono fiera.”
Tutti
gli altri bambini guardavano il proprio banco. Quasi tutti gli
italo-americani erano addirittura napoletani ma nessuno osò dire
niente. La bambina che aveva pianto quella mattina stava quasi per
piangere di nuovo, anche se aveva i capelli biondi, gli occhi
azzurri, e un naso piccolo piccolo.
La
suora, che aveva perso la pazienza, disse, “Allora, di’ alla
mamma di venire da me domani dopo scuola, e ne parleremo.”
“La
mamma,” disse Edith, sempre scandendo bene le parole, “è di
salute cagionevole. E’ stata in ospedale perché ha il cuore
debole. Mi rifiuto di farle fare la fatica di parlare con lei, anche
perché sarebbe inutile. La mamma direbbe la stessa cosa. Il nostro
cognome è Pozzuoli e si scrive P-o-z-z-u-o-l-i!”
Cagionevole?
pensò la suora. Ma
che razza di parola per una bambina di sei anni! Perché questa
bambina non parla come una bambina normale?
“Anche
se la tua mamma è in salute cattiva,” disse la suora, “dovrà
venire domani dopo scuola e ne parleremo. Siamo in America e dobbiamo
essere americani. Altrimenti, perché i tuoi genitori sono venuti in
America se volevano essere italiani? Sarebbero potuti benissimo
rimanere in Italia se volevano essere italiani.”
“I
miei genitori sono di Brooklyn,” disse Edith. “Non avevano
scelta. Sono nati qui.”
“Ecco,”
disse la suora, trionfante. “Non sono nemmeno italiani, i tuoi
genitori. Perché una persona sana di mente vorrebbe essere italiana
se non fosse necessario? E poi, addirittura napoletana! Il tuo
cognome adesso sarà Pozzuol, senza il vocale alla fine. Così, è
più americano, per una bambina americana, come te.”
“Io
sono napoletana,” disse Edith, scandendo bene le parole. “Il mio
cognome è Pozzuoli e si scrive P-o-z-z-u-o-l-i-i-i-i-i!”
Gli
altri bambini, sempre guardando il proprio banco, sorridevano per
gli i-i-i-i-i. Suonò come il riso di un asino. Anche la bambina che
prima stava per piangere, non stava più
per piangere.
La
suora non sapeva cosa dire. Non aveva mai avuto a che fare con un
bambino che non ubbidiva subito. Non capiva più niente. Era una
suora, non una persona qualsiasi, ed Edith era soltanto una bambina,
vale a dire nemmeno una persona vera.
Mentre
la suora cercava qualcosa da dire, Edith disse, “Mia mamma è di
salute cagionevole. Ha il cuore debole. Non deve fare troppe cose in
un giorno. E domani deve fare il bucato.”
Veramente,
Giulietta aveva già fatto il bucato quella mattina, ma questo non
c’entrava.
“Va
bene,” disse la suora, abbastanza contenta di finire con quella
discussione, e anche con una buona scusa per non farsi perdere la
faccia, “Se la mamma è in salute cattiva, non dovrà venire a
parlare con me,” con una leggera enfasi sulla parola cattiva.
Il
sorriso degli altri bambini, sempre guardando il proprio banco,
diventava un pochino più
grande. Anche la bambina con i capelli biondi, gli occhi azzurri, e
il naso piccolo piccolo, fece un accenno di sorriso. Forse la scuola
non sarebbe stata poi così cattiva, dopotutto.
Edith
aveva la sensazione di avere vinto qualcosa di importante, anche se
non sapesse precisamente che cosa. Ma era qualcosa da pensarci quella
notte a letto.
Dopo,
quando i bambini aspettavano, nel cortile della scuola, le mamme per
riportarli a casa, un bambino premuroso si avvicinò a Edith per
darle un consiglio importante.
“Non
dovevi dire niente,” disse a Edith quando l’aveva rag-giunta. “E’
sempre meglio fare l’americano, per non mettersi nei guai. Devi
sempre fingere di essere americano per evitare i problemi.”
Ma
come riesco a spacciarmi per americana con questo naso napoletano,
con la pelle un po’ scura, con gli occhi e i capelli neri?
pensò Edith.
E poi, perché dovrei farlo? A me piace essere napoletana. E se non
piace agli altri, è un problema loro, non mio. Questo bambino
stupido è soltanto un razzista contro il proprio popolo. Pozzuol! Ma
come suona ridicolo!
“Abbiamo
già un problema,” disse Edith, “nel caso che tu non l’abbia
notato. Quella suora è una razzista.”
“Ma
come una razzista!” disse il bambino, inorridito, con tutta la
faccia spalancata e non soltanto gli occhi. “Non è possibile che è
una razzista. . .”
Sia,
pensò Edith.
“.
. .perché è una cattolica praticante e per giunta una suora. I miei
genitori, che sono napoletani e fieri di esserlo, dicono sempre di
tenere la bocca chiusa. C’è troppo pregiudizio contro gli italiani
in questo paese.”
“Non
nascondi una cosa di cui sei fiero.”
“Tu
non capisci niente del mondo,” l’assicurò il bambino. “E poi,
mio fratello aveva questa suora come insegnante l’anno scorso e
raccontava a casa sempre tutto quello che diceva e faceva. Secondo la
mamma, a questa suora non piace che i suoi alunni sanno. . .”
Sappiano,
pensò Edith.
“.
. .le cose che lei non aveva insegnato loro. La suora ha le sue
ragioni e devono avere qualcosa a che fare con il sesso perché
quando i genitori cominciano a parlarne, parlano sempre in napoletano
invece di inglese. E tu hai scritto tutto il tuo nome il primo giorno
di scuola, e un nome proprio napoletano. Se io ero in te. . .”
Fossi,
pensò Edith, con un sospiro.
“.
. .non direi mai più
di essere italiana e non direi mai le cose troppo intelligenti. Era
una cosa sbagliata, scrivere tutto il tuo nome, e come se questo non
bastava. . .”
Bastasse!
Mamma mia!
pensò Edith. Ma
a che serve avere il congiuntivo se nessuno lo usa mai?
“.
. .proprio un cognome napoletano!”
“Ah,
sì?” disse Edith. “Allora, vuoi sapere una cosa? Oggi, a pranzo,
mangeremo il brasciol’ avanzato dalla cena di ieri sera!”
Edith
gli mostrò la lingua.
“Edith,”
disse la mamma.
Edith
si girò a guardare la mamma, gli occhi spalancati, la faccia un
pochino impallidita.
Ma
da quanto tempo è qui, la mamma?
pensò Edith. Mi
ha visto mostrare la lingua a questo bambino? La mamma dice sempre di
non farlo. Dice che non è gentile, e non è per niente da signora.
“Ciao,
mamma,” disse Edith, coraggiosamente. Cercò di sorridere ma
soltanto un lato della bocca si alzò, e solo un pochino.
“Ciao,
Edith,” disse la mamma con un bel sorriso.
“Buongiorno,”
disse la mamma al bambino. “Adesso io ed Edith dobbiamo andare a
casa perché ci aspetta un bel pranzo con il brasciol’ avanzato
dalla cena di ieri sera!”
“Poi,”
disse la mamma a Edith, “se fai la brava bambina, ti do un pochino
di caffè fatto con la cuccumella. Ma solo dopo pranzo, solo questa
volta. E sai cosa facciamo stasera? Facciamo una bella pizza per la
cena, proprio come la fanno a Napoli.”
All’improvviso,
come per magia, entrò nel cervello di Edith un nuovo pensiero.
C’entrò tutto intero, senza la necessità di grattarsi la testa,
come una spirale di luce, tutto piacere ed eccitazione, mandando un
formicolio dalla testa di Edith fino ai piedi.
Queste
parole,
pensò Edith, questo
tono di voce, questo sorriso, tutto questo, è così che gli adulti
mostrano la lingua alla gente. Che bella sensazione quando un nuovo
pensiero entra nel cervello! Quando sarò grande, sarò come la
mamma. Mi piace tanto questa sensazione.
Edith
sorrise alla mamma, questa volta con tutta la bocca e anche gli
occhi, e anche con tutto il corpo.
“Vieni,
Edith,” disse la mamma, “Dobbiamo trovare quel tuo fratello che
sparisce sempre.”
Prese
la mano di Edith e fece per portarla via. Si girò al bambino,
rimasto immobile, stecchito, a bocca aperta, e disse, “Ciao!”
Edith
si girò al bambino, con la tentazione di mostragli di nuovo la
lingua, però, essendo un genio, decise che sarebbe stato meglio non
farlo. E poi, non sembrava più necessario.
“Ciao,”
disse Edith al bambino, con un sorrisetto carino.
“Mamma,”
disse Edith, quella sera mentre stava guardando la mamma che stendeva
con il matterello la pasta per la pizza, “perché a certi
napoletani non piace essere napoletani?”
“Non
lo so,” disse la mamma. “Forse perché fingere di essere
inferiori, come quel bambino che non ti aveva detto di essere stupida
ma soltanto di fare la stupida, sembra un modo di combattere il
pregiudizio. Sembra più facile vivere con i tuoi difetti finti che
con quelli veri, perché sembra più facile fingere di correggere i
tuoi difetti finti e sembra impossibile correggere davvero i difetti
veri. Francamente, non l’ho mai capito bene. Ma capisco questo: Se
non sei contento di quello che sei, non puoi essere contento di
nient’altro nella vita.”
Edith
non disse niente. Doveva ricordare tutto questo per pensarci bene a
letto.
“C’è
un’altra cosa che capisco,” continuò Giulietta. “Tutti i
popoli hanno una bella cultura, una bella lingua, una bella cucina, i
bei dipinti, le belle sculture, la bella letteratura. Quando c’è
qualcosa di cattivo in una cultura, non è una vera parte di quella
cultura. E’ soltanto uno sbaglio che deve essere corretto.”